È un pianto continuo, fastidioso. Se inizia a piangere un bambino, quello a fianco lo segue a ruota. C'è anche una ragazza, su una barella poco più in là, e si lamenta pure lei.
Il tempo passa e l'enorme stanzone si svuota. Rimango solo, con la mia paura. Ma nessuno viene a chiedermi se ho paura. No, a me non lo chiede nessuno.
Si avvicina un'infermiera, sorride, lei.
“Bravo, tu non piangi. Per questo abbiamo fatto entrare in sala operatoria prima gli altri bambini”.
Vorrei dire qualcosa. Vorrei dire che non è giusto, che anch'io ho paura, che poi è pure entrata una ragazza grande, che...
Non ci riesco. E non piango, figurati.
Io e le mie emozioni ci conosciamo fin da quando ero bambino. Abbiamo imparato a convivere e, soprattutto, a mimetizzarci. Siamo così bravi a nasconderci, che dieci anni fa abbiamo aspettato sei mesi per piangere la morte di papà. E se proprio sentiamo che dobbiamo sbottare in un pianto liberatorio, adesso lo facciamo tra le mura domestiche, approfittando anche d'un film comico, ché fa più snob.
“Sei un maschietto, ormai, non puoi piangere come una femminuccia”. Questa frase, ripetuta da chiunque fosse titolare o anche solo si arrogasse un potere educativo nei miei confronti, per anni ha eroso qualunque forma di pensiero alternativo. E quando un'idea contraria ha provato a farsi spazio, ha trovato sulla strada delle vere e proprie corazzate: il senso di colpa e quello del dovere.
Nulla si può fare per se e tutto è dovuto agli altri. Provaci, di fronte a colossi di questa forza, a sviluppare qualche forma di solida autostima. Impresa ardua, eppure superata. Ecco, appunto: “eppure”. Come diremmo noi a Torino, esageroma nen.
Perché se riesco a fare qualcosa io, vuol dire che la può fare chiunque. Questo banale concetto è impresso a caldo, sottopelle, e devo farmi violenza per affermare il contrario. Quando ci riesco, nell'affermazione contraria, non trovo niente di meglio che imbarcarmi in progetti e situazioni che devono avere caratteristiche imprescindibili, altrimenti cambio natante: essere visionari, improbabili, poco inclini al compromesso, insofferenti alle ragioni mercantili. Se nello stesso progetto, o nella stessa situazione, c'è tutto questo, e anche qualcosa di più, allora posso stare certo che sarà amore a prima vista. Meglio, amore cieco. Perché l'autostima non deve farsi troppe illusioni, deve sapere chi detta davvero le regole. Qualcuno deve farle capire il fatto suo. E questo qualcuno si chiama"progetto fallimentare in cui nessuno investirebbe non dico denaro ma nemmeno un minuto del suo tempo". Si, è un nome un po' lungo, come quello dei nobili tedeschi.
“E' un'ottima idea, bravi. Certo, non semplice. Ci sono operazioni in corso, interessi. E poi gli interlocutori, si... e tavolo decisionale, e il consenso... E poi, una domanda: ma chi siete? Chi c'è dietro di voi? Perché, sai, è anche una questione di affidabilità più complessiva, progetti di questa natura richiedono, tu capisci...”.
Scherzi, io capisco sempre. E tiro fuori dall'armadio la mimetica chic, quella per le grandi occasioni. Impassibile, glaciale come solo un vero irascibile può essere. Un vero freezer, capace di dominare gli sbalzi di temperatura. Il fratello Blues che si toglie la polvere dal vestito quando la casa gli è crollata addosso, che osserva l'orologio e, come nulla fosse: “sono quasi le 9. Dobbiamo andare al lavoro”.
Mi chiedi come sto? Dimmi di te, piuttosto.
No, non farmi un complimento, non lo capirei. Anzi, non capirei te. Perché mai me lo fai? Tutto bene? Un po' di stanchezza ti manda in confusione? Ma no, non ti sto insultando, sul serio, volevo semplicemente dire che... Oh, lascia perdere, ho sbagliato io. Appunto.
Così, non mi puoi dire che io, si, proprio io, ti faccio emozionare. Secondo te, come dovrei reagire, io? Facendo l'unica cosa che mi viene in mente in questi casi per difendermi dalle mie, di emozioni: ci scherzo su, mi schernisco, mi prendo in giro ferocemente. E va a finire che tu pensi io stia prendendo in giro te, ma è il contrario
Ecco, si. Risveglio l'istinto e cerco nel manuale del già visto.
Perché io e le mie emozioni siamo abitudinarie, abbiamo sempre fatto così.
“Perché l'uma sempre fait parej”.
Da qualche giorno m'è venuta un'idea. E se la smettessi di scherzare?
Il tempo passa e l'enorme stanzone si svuota. Rimango solo, con la mia paura. Ma nessuno viene a chiedermi se ho paura. No, a me non lo chiede nessuno.
Si avvicina un'infermiera, sorride, lei.
“Bravo, tu non piangi. Per questo abbiamo fatto entrare in sala operatoria prima gli altri bambini”.
Vorrei dire qualcosa. Vorrei dire che non è giusto, che anch'io ho paura, che poi è pure entrata una ragazza grande, che...
Non ci riesco. E non piango, figurati.
Io e le mie emozioni ci conosciamo fin da quando ero bambino. Abbiamo imparato a convivere e, soprattutto, a mimetizzarci. Siamo così bravi a nasconderci, che dieci anni fa abbiamo aspettato sei mesi per piangere la morte di papà. E se proprio sentiamo che dobbiamo sbottare in un pianto liberatorio, adesso lo facciamo tra le mura domestiche, approfittando anche d'un film comico, ché fa più snob.
“Sei un maschietto, ormai, non puoi piangere come una femminuccia”. Questa frase, ripetuta da chiunque fosse titolare o anche solo si arrogasse un potere educativo nei miei confronti, per anni ha eroso qualunque forma di pensiero alternativo. E quando un'idea contraria ha provato a farsi spazio, ha trovato sulla strada delle vere e proprie corazzate: il senso di colpa e quello del dovere.
Nulla si può fare per se e tutto è dovuto agli altri. Provaci, di fronte a colossi di questa forza, a sviluppare qualche forma di solida autostima. Impresa ardua, eppure superata. Ecco, appunto: “eppure”. Come diremmo noi a Torino, esageroma nen.
Perché se riesco a fare qualcosa io, vuol dire che la può fare chiunque. Questo banale concetto è impresso a caldo, sottopelle, e devo farmi violenza per affermare il contrario. Quando ci riesco, nell'affermazione contraria, non trovo niente di meglio che imbarcarmi in progetti e situazioni che devono avere caratteristiche imprescindibili, altrimenti cambio natante: essere visionari, improbabili, poco inclini al compromesso, insofferenti alle ragioni mercantili. Se nello stesso progetto, o nella stessa situazione, c'è tutto questo, e anche qualcosa di più, allora posso stare certo che sarà amore a prima vista. Meglio, amore cieco. Perché l'autostima non deve farsi troppe illusioni, deve sapere chi detta davvero le regole. Qualcuno deve farle capire il fatto suo. E questo qualcuno si chiama"progetto fallimentare in cui nessuno investirebbe non dico denaro ma nemmeno un minuto del suo tempo". Si, è un nome un po' lungo, come quello dei nobili tedeschi.
“E' un'ottima idea, bravi. Certo, non semplice. Ci sono operazioni in corso, interessi. E poi gli interlocutori, si... e tavolo decisionale, e il consenso... E poi, una domanda: ma chi siete? Chi c'è dietro di voi? Perché, sai, è anche una questione di affidabilità più complessiva, progetti di questa natura richiedono, tu capisci...”.
Scherzi, io capisco sempre. E tiro fuori dall'armadio la mimetica chic, quella per le grandi occasioni. Impassibile, glaciale come solo un vero irascibile può essere. Un vero freezer, capace di dominare gli sbalzi di temperatura. Il fratello Blues che si toglie la polvere dal vestito quando la casa gli è crollata addosso, che osserva l'orologio e, come nulla fosse: “sono quasi le 9. Dobbiamo andare al lavoro”.
Mi chiedi come sto? Dimmi di te, piuttosto.
No, non farmi un complimento, non lo capirei. Anzi, non capirei te. Perché mai me lo fai? Tutto bene? Un po' di stanchezza ti manda in confusione? Ma no, non ti sto insultando, sul serio, volevo semplicemente dire che... Oh, lascia perdere, ho sbagliato io. Appunto.
Così, non mi puoi dire che io, si, proprio io, ti faccio emozionare. Secondo te, come dovrei reagire, io? Facendo l'unica cosa che mi viene in mente in questi casi per difendermi dalle mie, di emozioni: ci scherzo su, mi schernisco, mi prendo in giro ferocemente. E va a finire che tu pensi io stia prendendo in giro te, ma è il contrario
Ecco, si. Risveglio l'istinto e cerco nel manuale del già visto.
Perché io e le mie emozioni siamo abitudinarie, abbiamo sempre fatto così.
“Perché l'uma sempre fait parej”.
Da qualche giorno m'è venuta un'idea. E se la smettessi di scherzare?