24 febbraio 2010

TU CHIAMALE, SE PUOI

Il controllo delle emozioni

È un pianto continuo, fastidioso. Se inizia a piangere un bambino, quello a fianco lo segue a ruota. C'è anche una ragazza, su una barella poco più in là, e si lamenta pure lei.
Il tempo passa e l'enorme stanzone si svuota. Rimango solo, con la mia paura. Ma nessuno viene a chiedermi se ho paura. No, a me non lo chiede nessuno.
Si avvicina un'infermiera, sorride, lei.
“Bravo, tu non piangi. Per questo abbiamo fatto entrare in sala operatoria prima gli altri bambini”.
Vorrei dire qualcosa. Vorrei dire che non è giusto, che anch'io ho paura, che poi è pure entrata una ragazza grande, che...
Non ci riesco. E non piango, figurati.
Io e le mie emozioni ci conosciamo fin da quando ero bambino. Abbiamo imparato a convivere e, soprattutto, a mimetizzarci. Siamo così bravi a nasconderci, che dieci anni fa abbiamo aspettato sei mesi per piangere la morte di papà. E se proprio sentiamo che dobbiamo sbottare in un pianto liberatorio, adesso lo facciamo tra le mura domestiche, approfittando anche d'un film comico, ché fa più snob.
“Sei un maschietto, ormai, non puoi piangere come una femminuccia”. Questa frase, ripetuta da chiunque fosse titolare o anche solo si arrogasse un potere educativo nei miei confronti, per anni ha eroso qualunque forma di pensiero alternativo. E quando un'idea contraria ha provato a farsi spazio, ha trovato sulla strada delle vere e proprie corazzate: il senso di colpa e quello del dovere.
Nulla si può fare per se e tutto è dovuto agli altri. Provaci, di fronte a colossi di questa forza, a sviluppare qualche forma di solida autostima. Impresa ardua, eppure superata. Ecco, appunto: “eppure”. Come diremmo noi a Torino, esageroma nen.
Perché se riesco a fare qualcosa io, vuol dire che la può fare chiunque. Questo banale concetto è impresso a caldo, sottopelle, e devo farmi violenza per affermare il contrario. Quando ci riesco, nell'affermazione contraria, non trovo niente di meglio che imbarcarmi in progetti e situazioni che devono avere caratteristiche imprescindibili, altrimenti cambio natante: essere visionari, improbabili, poco inclini al compromesso, insofferenti alle ragioni mercantili. Se nello stesso progetto, o nella stessa situazione, c'è tutto questo, e anche qualcosa di più, allora posso stare certo che sarà amore a prima vista. Meglio, amore cieco. Perché l'autostima non deve farsi troppe illusioni, deve sapere chi detta davvero le regole. Qualcuno deve farle capire il fatto suo. E questo qualcuno si chiama"progetto fallimentare in cui nessuno investirebbe non dico denaro ma nemmeno un minuto del suo tempo". Si, è un nome un po' lungo, come quello dei nobili tedeschi.
“E' un'ottima idea, bravi. Certo, non semplice. Ci sono operazioni in corso, interessi. E poi gli interlocutori, si... e tavolo decisionale, e il consenso... E poi, una domanda: ma chi siete? Chi c'è dietro di voi? Perché, sai, è anche una questione di affidabilità più complessiva, progetti di questa natura richiedono, tu capisci...”.
Scherzi, io capisco sempre. E tiro fuori dall'armadio la mimetica chic, quella per le grandi occasioni. Impassibile, glaciale come solo un vero irascibile può essere. Un vero freezer, capace di dominare gli sbalzi di temperatura. Il fratello Blues che si toglie la polvere dal vestito quando la casa gli è crollata addosso, che osserva l'orologio e, come nulla fosse: “sono quasi le 9. Dobbiamo andare al lavoro”.
Mi chiedi come sto? Dimmi di te, piuttosto.
No, non farmi un complimento, non lo capirei. Anzi, non capirei te. Perché mai me lo fai? Tutto bene? Un po' di stanchezza ti manda in confusione? Ma no, non ti sto insultando, sul serio, volevo semplicemente dire che... Oh, lascia perdere, ho sbagliato io. Appunto.
Così, non mi puoi dire che io, si, proprio io, ti faccio emozionare. Secondo te, come dovrei reagire, io? Facendo l'unica cosa che mi viene in mente in questi casi per difendermi dalle mie, di emozioni: ci scherzo su, mi schernisco, mi prendo in giro ferocemente. E va a finire che tu pensi io stia prendendo in giro te, ma è il contrario
Ecco, si. Risveglio l'istinto e cerco nel manuale del già visto.
Perché io e le mie emozioni siamo abitudinarie, abbiamo sempre fatto così.
“Perché l'uma sempre fait parej”.
Da qualche giorno m'è venuta un'idea. E se la smettessi di scherzare?

07 febbraio 2010

SCATTI

In giro per Torino quando le auto sono ferme

La famiglia cinese sul risciò a pedali lungo i viali del Valentino.
La ragazza muscolosa che corre già in canottiera anche se il sole caldo di febbraio vuole la sciarpa.
La coppia che nasconde il bacio dietro lo zucchero filato.
Il padre che mostra orgoglioso i suoi gemelli e Carlo Alberto è solo uno dei due.
La puzza dello sterco dei cavalli presso il maneggio della Polizia.
Le prime ragazze sdraiate sull'erba davanti all'Imbarchino, in attesa del Primo Maggio.
La ragazza musulmana con il suo vivace hijab verde acido.
Padre e figlio che fanno insieme i compiti stando seduti sulla panchina di pietra davanti al Po.
Le due ragazze che studiano al Fluido mentre due loro coetanei sorseggiano vino rosso al tavolino accanto.
Le due ragazze che ai Murazzi mi chiedono d'essere fotografate davanti al fiume.
La mamma che guarda i primi passi del suo piccolo e gli parla un po' in italiano e un po' in rumeno.
Il ragazzo che porta a spasso il suo mini-cane.
Il cucciolo di mini-uomo inseguito dal suo papà.
I vigili urbani fermi con la paletta dietro i birilli arancioni.
La mamma che fa le corna sulla testa del papà mentre il bambino li fotografa e forse quelle corna non sono nemmeno le prime.
Il ragazzo pigro che lascia scivolare lentamente il suo skateboard, confidando nell'inclinazione di Piazza Vittorio.
Quando meno me lo aspetto, colgo lo sguardo incuriosito di una ragazza che cammina con un'amica. Appena nota che la sto osservando anch'io, gira la testa. Di scatto.

06 febbraio 2010

AD OCCHI CHIUSI

Un venerdì sera

“Hey! Manca il quarto!!”, urlo.
“Vieni!!”.
Non me lo faccio ripetere due volte. Mentre siamo fermi al semaforo, mi butto fuori dalla macchina e corro verso di loro.
Occhio e croce saranno tutti ventenni o poco più. Tre ragazzi e quattro loro amiche, tutte con la macchina fotografica o il cellulare, pronte a immortalare la scena. Quel tratto di strada è deserto e i ragazzi scimmiottano i Beatles sulle strisce pedonali.
“Ma dai, non potete fare Abbey Road in tre, e che diamine. Forza!”.
“Sei un grande! Come ti chiami?”.
Non lo so come saranno venute quelle fotografie. Ma vuoi mettere lo sfondo di Palazzo Reale in piena notte?
“Ti sei fatto dare la foto?”, chiede Paoletta. “No, son venuto via così, mi basta ricordare”.
Appena le tre di notte e siamo già a farci il cappuccino. Non ci riusciamo proprio più a star dietro alle tendenze, alternativi nostro malgrado. Arriviamo troppo presto alle serate e ce ne andiamo quando i locali scoppiano di corpi sudati.
Siamo in piena “downtown”, anche se Papaciccio aveva chiesto espressamente di fermarci in un bar di periferia. A dir la verità, lui stasera avrebbe desiderato tutt'altro. Usciti con l'idea di tuffarci in una notte a base di “dubstep”, lo abbiamo trascinato in mezzo alla “techno funk” di due dj berlinesi. Tutto molto “cool”, la musica e, soprattutto, la ragazza che ho notato all'ingresso. O forse era un “girl” e quella era una “door”.
Nulla è andato come da programma, stasera.
Dopo cena l'orologio avverte che sarebbe criminale passare a giocare coi piccoli a quell'ora, e l'esperienza mi fa tremare al pensiero dell'aspettativa che avrà creato in loro il papà.
Ma il mio senso di colpa oggi è bulimico.
L'avevo segnato in agenda, proprio per non dimenticarlo. Ero stato pure invitato, l'avevo richiesto quell'invito. E solo prima di mezzanotte mi accorgo che lo spettacolo teatrale diretto da un mio amico sarà finito da un pezzo. Devo fare qualcosa per la mia memoria. E chissà dov'è la mia testa. A volte nemmeno vedo quello che ho davanti al naso.
Dicevo?
La birra era come la desideravo: fredda e dal sapore insignificante. I suoni vanno oltre l'immaginato, ma dopo due ore non ci divertono più. Papaciccio, incurante della folla, va verso il bar. Io e Paoletta pensiamo sia stolto, ma forse è solo sete. Mentre difendiamo la colonna cui ci siamo appoggiati per sempre, inizio a giocare con gli occhi della ragazza che mi sta di fronte. L'amico che parla con lei se ne accorge e, dopo un po', mi dice ridendo: “siete anche voi qui per le pastiglie?”.
Gattaccio, perché non sei qui? Ora servirebbe una delle tue risposte alienate. Nel fiume umano dei Murazzi tossici e notturni, alla richiesta di una cartina tu rispondesti: “dove devi andare?”.
Ma io non sono così pronto. Riesco solo ad alzare le guance e dirgli no. Nel mezzo delle luci colorate, del frastuono e dei suoi limiti, non credo che abbia colto il sarcasmo della mia smorfia.
Mica sono moralista per davvero, ci mancherebbe altro. E capisco pure che qualcuno abbia bisogno d'aiuto per sopportare questo ritmo ossessivo e divertirsi.
Sono solo curioso. Dov'è finita la capacità di fantasticare da soli?
Eppure, è così semplice, come in un bacio.
Si, basta solo chiudere gli occhi.