Va avanti e indietro nervosamente. La giacca è azzurra, il cellulare attaccato all'orecchio, il pantalone nero stretto alle caviglie, le ciabatte infradito. Ciabatte infradito, a dicembre poi... Ok, fa caldo, è pure tornata l'umidità, e me ne sono accorto stamattina, perché ho lasciato il passaporto sul tavolo del soggiorno e si è accartocciato durante la notte. Ma qui basta buttare l'occhio in giro per capire che a Miami nessun uomo porterebbe con nonchalance delle ciabatte infradito. È evidente, non può che essere italiano. Anzi, sai che ti dico? Sarà un gallerista milanese, fammi sentire un po'.
Mi avvicino. Bingo. Forse non è un gallerista, ma di certo è milanese.
Un sano pregiudizio e un calcolo probabilistico, quanto basta per orientarti.
Delle 200 gallerie presenti all'edizione 2012 di "Art Basel Miami Beach", quelle italiane sono poche, otto se ricordo bene. Quella torinese la riconoscerei subito, anche se non ne vedessi il nome e la provenienza. Da Franco Noero, quando ci scusiamo in italiano perché stiamo provando a non distruggere con il nostro passeggino un muro in cemento (che forse è un'opera di Lara Favaretto ma potrebbe anche essere il confine di una servitù di passaggio a Santo Stefano Belbo), non abbozzano nemmeno una smorfia, con quell'understatement tipicamente piemontese, per cui essere a Miami Beach o a Vanchiglia non fa alcuna differenza. A parte un collage di fotografie che credo sia intellegibile pure per il nostro piccolo Julian, puntano, come molte gallerie tedesche e qualche londinese, sull'arte contemporanea più concettuale, quella che tiene lontani dagli stand la maggior parte dei visitatori mortali. Sono un ignorante quasi completo, ma credo che a queste latitudini tenga lontani anche molti investitori latino-americani. Non a caso, molte gallerie newyorchesi, che qui rappresentano quasi il 40% degli espositori, propongono tutte le possibili variazioni di Picasso e Mirò, tanto da farti dubitare seriamente che non ce ne sia uno pure nella cantina di tua nonna (sempre nella cascina di Santo Stefano Belbo, chiaro). Fontana va forte pure lui: una galleria parigina dal nome toscanissimo ha allestito uno spazio colmo di tele tagliate, di tutti i possibili colori, quasi fosse l'angolo che i supermercati ti piazzano alle casse per invogliati all'acquisto d'impulso. In ordine sparso, nel Convention Center di Miami Beach non fatichi a trovare: Chagall, Leger, Pistoletto, Kounellis, Boetti, Warhol, Basquiat, Haring e Lichtenstein. Calder e le sue "cascade" sono dappertutto, ma davanti all'Ingresso D una galleria newyorchese (manco a dirlo) propone una sua opera più imponente (anche se mai come quella che si può vedere liberamente nel parco del Seattle Art Museum, che mi ricorda quella immensa installata in Piazza Castello 20 anni fa, per la sua retrospettiva torinese). A gentile richiesta della mia signora scopriamo che con un milione e quattrocentomila dollari ci portiamo a casa un Calder da comodino, un 30x30. Mai io vorrei qualcosa che mi risolvesse le serate, qualcosa che quando gli ospiti te lo vedono rimangono lì imbarazzati solo perché capiscono un cazzo e tu glielo fai gentilmente notare. Non dico una roba sterminata come le trombe di Kapoor al Maxxi di Roma, ma almeno qualche colonna torta di Cragg, magari meno alte di quelle che a Torino ci sono davanti allo Stadio Olimpico. Le trovo, qualche galleria le offre ad altezza uomo e pure un po' tozze. Memore dei quasi duecentomila euro richiesti ad Artissima lo scorso anno per tre colonnine da 60 centimetri, immagino che con un paio di milioni di dollari mi levo lo sfizio.
Tremendamente alla moda sono le infermiere di Richard Prince, e le tante visitatrici che si aggirano per gli stand con seno finto, tubino che copre appena il sedere e tacco 15: impossibile non vederle e impossibile contarle.
Menzione finale per una delle sole tre gallerie di Miami presenti alla fiera: la distesa di grandi sagome a forma di sigarette, rese umane con tanto di facce disegnate e mani che sorreggono cartelli dissacranti, è forse l'installazione più fotografata di tutta l'Art Basel. E nel Paese che ha inventato il politicamente corretto e che addita i fumatori come criminali, queste sigarette sono adorabili anche per un non-fumatore accanito come il sottoscritto. "Y'alls can suck my BALLS".
[La fotografia ritrae uno dei TRAVELLER di Duane Hanson, la cui serie è stata realizzata tra il 1985 e il 1987. Nato in Minnesota, Hanson ha lavorato a lungo in Florida, dove è morto nel 1996, a Boca Raton].
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