"È un agente?", mi chiede fissandomi attentamente. Davvero non so che rispondergli. Capisco con un attimo di ritardo, quell'attimo che mi ha raggelato il sangue, che c'è stato un fraintendimento. "No, dicevo che ho l'iPad nella borsa. Che faccio? Lo lascio lì?". Ride. Tutto risolto. Va bene che la mia pronuncia non è ancora perfetta, ma non so per quale ragione abbia creduto, invece, che io avessi un un coltello con me. Si scusa per il malinteso e io tiro un sospiro di sollievo. Non sono affatto teso, figurati. Siamo solo all'ingresso dell'USCIS di New York, l'ufficio per l'immigrazione, e il poliziotto pensa che io abbia un coltello nella borsa. No, no, non sono teso. Per niente.
A Miami, per prendermi le impronte digitali, la fila era stata ben più lunga. Qui, dopo essere saliti all'ottavo piano ed esserci registrati agli sportelli dell'accoglienza, l'attesa è poca cosa. Aspettiamo seduti in un salone largo e lungo. Dobbiamo tenere le orecchie ben aperte per sentire il nostro numero, PA-135, perché il monitor che dovrebbe aiutarci non funziona. Funziona, invece, l'onnipresente televisore, sintonizzato su Fox News e sulle notizie della tragedia creata dal tornado a Moore, vicino Oklahoma City.
Ci siamo portati anche le foto del nostro matrimonio, al colloquio, insieme al contratto d'affitto e alle coordinate del nostro conto in banca. Certo, c'è anche il piccoletto con noi, e i suoi certificati di nascita. La sua presenza dovrebbe bastare. Ma tutto quello che serve a dimostrare che siamo una famiglia vera, e non una fittizia, aiuta a raggiungere lo scopo: ottenere un permesso di soggiorno, la carta verde, ed evitare la diaspora familiare.
Corso Verona, la sede dell'Ufficio Immigrazione di Torino, che mia moglie ha conosciuto bene, anche quando era incinta e faceva la coda, dista anni luce da qui. Laggiù, un vecchio magazzino con delle grate manco fosse una prigione di massima sicurezza; dove poliziotti ti accolgono bruscamente, dimenticando che almeno la metà di loro è figlia di immigrati che furono trattati allo stesso modo, se non peggio, nel loro Paese d'origine e quarant'anni fa, non nell'800. Qui, e non solo a New York, un ufficio dove i poliziotti aiutano chi è in coda a capire dove andare e dove la sicurezza è la prima preoccupazione: metal detector ovunque. E non si venga a tirare in ballo la legge sull'immigrazione, ché qui è restrittiva assai, molto più che in Italia, e nessuno è al riparo, nemmeno una famiglia come la nostra. No, bastano tre parole per scavare la differenza: cultura, educazione, organizzazione. Su, un po' d'impegno, almeno 'sto buco possiamo colmarlo in Italia. Ci vuole poco ad essere civili con chi viene nel tuo Paese, anche se hai paura di lui e non ti fidi. E qui, dopo l'11 settembre, la paura è ancora davvero tanta.
L'USCIS si trova su Federal Plaza, ma noi usciamo dal lato opposto. Pochi isolati su Broadway, in direzione sud, e si arriva davanti alla St. Paul's Chapel. Un altro isolato su Vesey Street e si arriva dove una volta c'erano le Twin Towers, che nel loro crollo hanno lasciato miracolosamente in piedi proprio St. Paul. Al posto delle Torri Gemelle, adesso si erge un nuovo grattacielo, il One World Trade Center, con la sua altezza simbolica di 1776 piedi, perché il 1776 fu l'anno della Dichiarazione d'Indipendenza degli Stati Uniti d'America. I turisti scattano fotografie e si mettono in coda per comprare il biglietto d'accesso al 9/11 Memorial. I cartelli ricordano che questo è pur sempre un luogo della rimembranza, quindi il silenzio e il rispetto sono la regola. Qualche settimana fa, alcuni familiari delle vittime hanno criticato la decisione di far pagare un biglietto per accedere al museo dedicato alla memoria dell'undici settembre, definendolo "uno schiaffo in faccia". Ma altri familiari delle vittime si sono invece dichiarati d'accordo, perché pensano che il museo abbia bisogno di finanziamenti per ricordare nel migliore dei modi quello che è avvenuto.
Ai semafori, gli operai dei cantieri smistano il traffico pedonale, mentre qualche tassista, tanto per non uscire dal copione che tutti si aspettano, non rinuncia a suonare il clacson. Come direbbe mia moglie: welcome to New York.
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