Vado a cercare la notizia sul New York Times. Non la trovo. Trovo, ovviamente, la notizia che riportano anche i giornali italiani, compreso il noto quotidiano di cui sopra: Facebook introduce gli hashtag, cioè le etichette con il simbolo del cancelletto, per seguire le conversazioni più popolari. Il New York Times, però, diffonde la notizia solo sul suo blog dedicato alla tecnologia, BITS. E, ovviamente, riporta il link al blog di Facebook che ha comunicato al mondo intero la novità. Ovviamente perché, salvo eccezioni che immagino esistano (quanto meno per calcolo probabilistico), i media statunitensi presenti su internet, quando riportano una notizia presa da altri, non solo citano la fonte ma indicano il link presso cui è possibile trovare la notizia originale.
Leggo e rileggo l'articolo italiano. Non c'è traccia del link all'articolo del New York Times. In compenso, si dice che, a proposito degli hashtag, "il primo a profetizzarne se non la fine quantomeno una profonda revisione del meccanismo è stato il New York Times con un pezzo di Daniel Victor, social media staff editor: << Ci sono due cose da tenere presenti quando si tratta di raggiungere più utenti possibili - ha detto Victor - la prima è in quanti stanno usando quello specifico tag, la seconda quanti lo stanno cercando. Non abbiamo il minimo dato su quanto spesso certi tag siano ricercati. E se nessuno cerca, nessuno troverà mai nulla >>. Abusati, poco attraenti, spesso ridicoli e male architettati, troppo lunghi o incomprensibili, gli hashtag rischiano dunque di vivere proprio in questi mesi il loro canto del cigno". Il cigno, che visione poetica. Ripenso ai cigni nel lago di Prospect Park, una calda domenica di maggio... Va bene, mi sono perso pure io.
Allora, il giornalista italiano dice: "il New York Times con un pezzo di Daniel Victor". Possibile che usando la funzione di ricerca interna al New York Times io non riesca a trovare un pezzo a firma di Daniel Victor che parli degli hashtag? Proviamo a cercare, allora, usando un banale motore di ricerca. Il più banale di tutti, senza troppo sforzo: Google. E che viene fuori dalla ricerca? Effettivamente, Daniel Victor ha parlato di hashtag, con un articolo pubblicato a fine marzo sul Nieman Journalism Lab ("Hashtags considered #harmful"), non sul New York Times. E non c'è scritto alcunché a riguardo del fatto che "non abbiamo il minimo dato su quanto spesso certi tag siano ricercati. E se nessuno cerca, nessuno troverà mai nulla". Insomma, Daniel Victor 'ste cose le avrà pur dette, no? Magari il giornalista italiano avrà fatto una crasi tra New York Times e Nieman Journalism Lab, magari avrà fatto un po' di confusione (eufemismo), ma avrà letto da qualche parte queste affermazioni. Allora, continuo a cercare pure io.
Ecco, forse ci sono: il 5 giugno, un articolo su BuzzFeed ("Who needs hashtags anymore?") riporta non solo il link all'articolo pubblicato su Nieman Journalism Lab, ma anche le precise parole che Daniel Victor ha detto al giornalista di BuzzFeed: "We have absolutely no available data on how often these tags are searched. Really, that’s all that matters. If nobody is searching, nobody is going to find it". La traduzione italiana era ottima, centrava l'obiettivo. E anche il resto dell'articolo è una perfetta traduzione di tutto quel che ha scritto BuzzFeed riportando le parole di Daniel Victor.
Morale della favola? Massimo rispetto al giornalista italiano, davvero, non sto scherzando: ha fatto un ottimo lavoro di ricerca delle fonti e ha sintetizzato perfettamente il concetto chiave. Ma a chi sarà venuta l'idea di sintetizzare sino al punto di parlare di un articolo che non è mai esistito sul New York Times? A lui? Al suo caporedattore, che magari gli avrà detto: "ahò! 'Sta notizia de Feisbuk e gli hashtag è bona, si, ma ce dovemo ricamà sopra... Cioè... 'sto tipo è uno che conta 'ar Nuiortaim pe' tutte le menate dei soscial midia? E allora diciamo che la polemica l'ha montata er Nuiortaim e li midia iuesei l'hanno rilanciata. Meglio così, no?". Mah, se lo dice lui...
È davvero un mestiere difficile quello del giornalista. E non solo perché devi essere bravo a scrivere, ché una fesseria come quella che scrivo io sul mio blog son capaci tutti, mentre un vero articolo è una cosa diversa. Mestiere difficile, da quel che leggo sui quotidiani italiani, soprattutto per i giornalisti che stanno qui a New York. Difficile perché a meno di non essere il corrispondente che parla di Obama, della NSA o di Guantanamo, ti tocca leggere a più non posso blog e giornali vari, dal New York Post al New York Magazine, passando per DNA.info e Gothamist, alla ricerca di notizie che possano riempire le pagine del quotidiano per cui lavori, secondo i desiderata del tuo caporedattore.
Peccato, se solo negli anni avessi investito un minimo di tempo per crearmi relazioni nella blogosfera italiana, ora potrei vantare molti più lettori di quei super-affezionati amici che mi seguono (grazie di cuore, miei cari). Io, invece, mi sono sempre e solo fermato all'idea del diario e poco più, spesso cercando di scrivere nel modo più criptico possibile.
Che fare adesso? Caro caporedattore italiano che per qualche strano motivo sei finito sul mio blog (improbabile, eh?). Vivo a New York, la giro parecchio e guardo tutto. Certo, leggo anche parecchio, qualunque cosa attrae la mia attenzione. Chiedimi un pezzo e troviamo l'accordo sul prezzo.
Ah, dimenticavo. Il link all'articolo italiano? Eh no, sono italiano pure io. Perché mai dovrei citarlo? Aaahhh!!!Aaaahhhh!!!!Aaahhhh!!!!
[Questo post è dedicato a due persone.
Enrica Crivello (www.enricacrivello.it, @jembenton su Twitter), che aiuta i suoi clienti a usare bene i social media.
Sandro Pisani (www.pisaniphoto.com, @pisaniphoto su Twitter), fotografo che spesso si domanda perché in Italia i giornali non citino il nome degli autori delle fotografie]
I link agli articoli citati:
http://www.buzzfeed.com/charliewarzel/who-needs-hashtags-anymore
Mi spiace, non conosco l'autore della fotografia.
Mi spiace, non conosco l'autore della fotografia.
Nessun commento:
Posta un commento