La sua eta non la dice, dice solo che è vecchio e che dopo qualche ora non ce la fa più a lavorare e se ne va a casa. Nell'ora che abbiamo trascorso per pranzare nel suo locale, è stato pochissimo fermo. Ha sistemato le luci natalizie, la tenda, il bagno. È ha preso anche un quarto di dollaro, lo ha infilato nella vecchia macchinetta per le caramelle, di quelle che si usavano una volta, e ha fatto una sorpresa al nostro piccoletto. Anche se a casa nostra la televisione è sempre spenta, questo amabile nonno gli ha pure concesso il privilegio del cambio di canale sullo schermo che sovrasta il bancone: da quello sportivo ai programmi per bambini. Dopo il vaccino dal pediatra, con annesse urla di dolore, questo regalo ci sta.
Corner Burger, con i suoi tavolini neri e le sedie in finta pelle rossa, è veramente un angolo piccolo. E sembra ancora più piccolo nella Park Slope che fa tendenza, tra gelati italiani artigianali, abbigliamento vintage e boutique per bambini. Oltre agli hamburger serve la poutine, un piatto che fanno a Montreal, con patatine fritte, salsa gravy e formaggio. Io lo prendo nella versione carnivora con salsa barbecue.
A guardarsi attorno, e a vedere i pochi clienti, Corner Burger è rimasto fermo almeno a vent'anni fa, quando la storia della città dice che i brownstone della zona, le tipiche case in arenaria rossa, iniziavano ad essere nel mirino dei ricchi che si trasferivano a Brooklyn. "Qui, ora, ci sono più ricchi che a Manhattan. Lo sai che al negozio all'altro angolo della strada chiedono undicimila dollari al mese". Non fatico a crederlo. È stata la prima cosa che ho pensato entrando qui dentro: ma come fa a resistere? Ci racconta che sua figlia vive a Long Island City, quartiere del Queens che si affaccia direttamente sull'East River di fronte a Manhattan. Vorrebbe cercare una casa più grande, nei nuovi condomini che stanno costruendo. Paga già un affitto altissimo, ma quei nuovi palazzi sono ancora più fuori dalla sua portata.
A guardarsi attorno, e a vedere i pochi clienti, Corner Burger è rimasto fermo almeno a vent'anni fa, quando la storia della città dice che i brownstone della zona, le tipiche case in arenaria rossa, iniziavano ad essere nel mirino dei ricchi che si trasferivano a Brooklyn. "Qui, ora, ci sono più ricchi che a Manhattan. Lo sai che al negozio all'altro angolo della strada chiedono undicimila dollari al mese". Non fatico a crederlo. È stata la prima cosa che ho pensato entrando qui dentro: ma come fa a resistere? Ci racconta che sua figlia vive a Long Island City, quartiere del Queens che si affaccia direttamente sull'East River di fronte a Manhattan. Vorrebbe cercare una casa più grande, nei nuovi condomini che stanno costruendo. Paga già un affitto altissimo, ma quei nuovi palazzi sono ancora più fuori dalla sua portata.
Zitti, zitti ci prendiamo la metro e ce ne torniamo nella nostra vecchia Bay Ridge, sperando che a nessuno venga ancora in mente che qui si vive bene, si mangia bene e con affitti per gente normale. Bay Ridge ha appena festeggiato 160 anni. In realtà, la sua fondazione risale al 1675, ma nel 1853 gli abitanti del villaggio, che poi divenne un quartiere di Brooklyn, decisero di cambiare nome: il vecchio "Yellow Hook" veniva associato alla febbre gialla, che tanti morti aveva provocato, serviva quindi un nuovo nome, che magari richiamasse le caratteristiche geografiche della zona.
Anche a casa nostra si festeggia: abbiamo finalmente uno stereo. Di quelli che si usano ora, assai diverso da quello che avevamo a Torino, che a me sembrava nuovo nonostante i suoi vent'anni e più. Questo ha il bluetooth, che per me è una cosa rivoluzionaria, perché attraverso il mio iPad ora posso ascoltare le radio online direttamente dalle casse dello stereo. Devo ammetterlo, ci mancavano Radio Capital e Radio Tre, il pomeriggio con Mixo e i concerti in diretta dal Teatro Regio. Questa cosa del bluetooth per me è davvero magica, non puoi spiegarla.
Per il piccoletto, invece, la magia è un altra. Radio e computer ci hanno fatto compagnia per mesi, ma il suono che esce dalle casse lo fa ballare come una trottola, sia Dave Brubeck o i Nuyorican Soul. Non lo so se sia un vero nativo digitale, lui. Adesso è il momento del cosa, non quello del come.
Il piccoletto si siede spesso al mio fianco quando scrivo. E mi vede battere le dita sulla tastiera. Da almeno due anni ho abbandonato il computer, anche per il lavoro uso sempre e solo il mio tablet, che è quasi un'estensione delle mie mani. Lui osserva le mie dita e vede le lettere comparire via via sullo schermo. Di tanto in tanto, apro un file nuovo e lascio che sia lui a battere con le sue dita la tastiera virtuale, per scrivere nuove parole lunghissime e sconosciute, dove anche una sola consonante può ripetersi all'infinito. Poi la sera, quando leggiamo i libri insieme, lui ne prende uno, lo sfoglia velocemente fino a quando non raggiunge una pagina fitta di parole, tipo quella dei ringraziamenti. Allora si ferma, appoggia le sue mani sulle parole e si mette a battere le dita su tutta la pagina, fino a quando non è soddisfatto. L'editor è avvisato.
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