Voglio camminare da solo e sentire freddo. Vorrei sentire il freddo come quello che arriva dalle montagne. Voglio che la musica mi isoli da tutto il resto. Era più facile quando l'inglese era davvero solo un suono indistinto e dalle cuffie usciva il mondo che m'immaginavo io. Mo' che inizio a capirci qualcosa, mi sono perso un pezzo della poesia. Non li ho mai provati, ma sono sicuro che per me il freddo e la musica nelle orecchie siano meglio di qualunque allucinogeno.
Ero sveglio, sveglissimo, l'altra sera. Continuavo a rivedere la scena dei questuanti che a cena, in un ristorante italiano nel Meatpacking District, facevano la fila davanti all'ospite d'onore per stringergli la mano e rifilargli i biglietti da visita più improbabili. "Posso presentarle la mia amica? Si occupa di moda". La poveraccia non spiaccicava una parola che fosse una in italiano ma fissava intontita il suo promotore e continuava a sorridere. Fiducia buttata nel cesso, amica, credimi. Ma tanto di cappello all'ospite d'onore, un vero signore. Avrei voluto chiedergli: "ma perché ha deciso di lasciare questo Paese e tornare in Italia dopo vent'anni?". Invece mi sono limitato a salutarlo e raccontargli un simpatico aneddoto personale che mi lega indirettamente a lui. In Italia forse io ci tornerò da pensionato, pensavo mentre prendevo la metro per Brooklyn. E mentre rivedevo e pensavo e rivedevo e... Ricordo solo che era come se mi fossi appena svegliato. Sentivo un po' freddo. Ma non avevo sentito la voce dell'altoparlante in treno, ché forse il volume delle mie cuffie era fin troppo alto. Così ho visto il nome della mia fermata, ma le porte si stavano chiudendo in quel momento e io non ho accennato nemmeno un movimento, quasi fossi ghiacciato. Certo che avrò detto parolacce e maledetto il momento in cui mi sono giocato la concezione del tempo e del luogo. Mi sarei risparmiato volentieri mezzo miglio a piedi, fortuna che la successiva stazione di Fort Hamilton Avenue non era nemmeno troppo distante. Non ho capito come facessero quei ragazzi a giocare a football su un campo innevato alle dieci di sera, ma io mi sono sentito un cretino perché fissavo i miei piedi mentre camminavo verso casa e cercavo di non scivolare sul marciapiede gelato e mandavo sms per avvisare del ritardo.
Ero sveglio, sveglissimo, l'altra sera. Continuavo a rivedere la scena dei questuanti che a cena, in un ristorante italiano nel Meatpacking District, facevano la fila davanti all'ospite d'onore per stringergli la mano e rifilargli i biglietti da visita più improbabili. "Posso presentarle la mia amica? Si occupa di moda". La poveraccia non spiaccicava una parola che fosse una in italiano ma fissava intontita il suo promotore e continuava a sorridere. Fiducia buttata nel cesso, amica, credimi. Ma tanto di cappello all'ospite d'onore, un vero signore. Avrei voluto chiedergli: "ma perché ha deciso di lasciare questo Paese e tornare in Italia dopo vent'anni?". Invece mi sono limitato a salutarlo e raccontargli un simpatico aneddoto personale che mi lega indirettamente a lui. In Italia forse io ci tornerò da pensionato, pensavo mentre prendevo la metro per Brooklyn. E mentre rivedevo e pensavo e rivedevo e... Ricordo solo che era come se mi fossi appena svegliato. Sentivo un po' freddo. Ma non avevo sentito la voce dell'altoparlante in treno, ché forse il volume delle mie cuffie era fin troppo alto. Così ho visto il nome della mia fermata, ma le porte si stavano chiudendo in quel momento e io non ho accennato nemmeno un movimento, quasi fossi ghiacciato. Certo che avrò detto parolacce e maledetto il momento in cui mi sono giocato la concezione del tempo e del luogo. Mi sarei risparmiato volentieri mezzo miglio a piedi, fortuna che la successiva stazione di Fort Hamilton Avenue non era nemmeno troppo distante. Non ho capito come facessero quei ragazzi a giocare a football su un campo innevato alle dieci di sera, ma io mi sono sentito un cretino perché fissavo i miei piedi mentre camminavo verso casa e cercavo di non scivolare sul marciapiede gelato e mandavo sms per avvisare del ritardo.
La musica in cuffia ora è sufficientemente forte per non sentire il rumore di una macchina che volesse provare a centrarmi sulle strisce pedonali, sento le gambe fredde, quasi inutili i jeans. C'è il sole e dalla strada si vede bene uno degli altissimi piloni del Ponte di Verrazano. Al parco c'è praticamente nessuno, solo qualche scoiattolo e una ragazza che sta fotografando il suo ragazzo sotto un albero senza foglie. Scendo a passo più deciso verso il molo. L'aria è gelida, provo a congelarmi una mano per scattare delle fotografie pure io. Quando voglio vedermi la New York da cartolina, mi allontano dalla città e vengo a vederla da quaggiù, dove il fiume Hudson si allarga prima di passare per la strettoia che lo porterà sull'Atlantico. Un po' come quando a Torino andavo su in collina, anche solo al Monte dei Cappuccini, per vedere la città dall'alto e provare a riconoscere le strade e i palazzi. Non lo avrei detto, ma dopo appena dieci mesi mi sono familiari i grattacieli e questa immensa distesa d'acqua che non so quando smetterò di pensare che sia mare. Tutto è grande, figurati i fiumi.
Si allontana l'unico altro pazzo individuo che aveva avuto il coraggio di venire a passeggiare qui. Ma nemmeno adesso sono solo. La banchina è piena di gabbiani che sembrano impietriti, ingobbiti dal gelo pure loro. Si, ora voglio tornare a casa. Passeggio sulla cacca fresca che hanno appena fatto i gabbiani e il naso non smette di gocciolare. A poco a poco i miei occhi si riempiono di lacrime, forse per il freddo. Ma non mi interessa davvero saperlo.
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