12 luglio 2015

Bagaglio a mano [ NYC #51 ]

Per un viaggio di tre ore un sacchetto di plastica basta e avanza


Dice che, una volta tirato fuori dal frigo, il caciocavallo possa resistere per tre ore chiuso in un sacchetto sotto il sole. Basta che il sacchetto si muova ad andatura regolare, seppur incerta, e non rimanga fermo nella stessa posizione per più di trenta minuti. Con questa massima di saggezza in testa, so già cosa fare quando esco dall'ufficio immigrazione.

[ Parentesi. Tutte le volte che sono stato dentro un ufficio dell'immigrazione qui negli Stati Uniti, da Miami a New York, ho pensato una sola cosa: noi, in Italia, siamo delle merde. E tutte le volte ho ripensato alle code fuori da quella specie di basso fabbricato camuffato da galera in Corso Verona a Torino, dove la Ragazza Dai Capelli Rossi, già in gravidanza, doveva attendere in piedi l'apertura perché non c'era un orario per l'appuntamento. Questo valeva per le altre donne nella sua condizione così come per chiunque altro. Quando ripenso a quell'enorme magazzino con tanto di sbarre a separare la sala d'attesa dagli sportelli, e quando ripenso alle urla che alcuni funzionari rivolgevano agli uomini e alle donne che erano lì, talvolta anche con i loro figli, penso che noi in Italia siamo semplicemente delle merde. Con tutte le eccezioni possibili e con tutta l'umanità dimostrata da altri funzionari e poliziotti, e che noi abbiamo sperimentato in prima persona, il sistema è comunque organizzato per umiliare le persone. Non è necessario essere delle merde ed è pure inutile. Perché una legge e la sua applicazione possono essere severe e restrittive, come succede negli Stati Uniti, senza per questo essere meno civili. Se poi in tre anni le cose sono migliorate, allora posso usare l'imperfetto: eravamo. Chiusa parentesi. ]

In un'ora sono fuori dall'ufficio immigrazione, dove mi hanno fatto un nuova fotografia e ho lasciato nuovamente le mie impronte digitali. Peccato solo che ieri mi sia dimenticato d'andare a tagliarmi i capelli. Almeno i polpastrelli erano in ordine. Per fare queste pratiche non si va all'ufficio centrale di Manhattan ma in quelli periferici. Quello cui sono stato assegnato si trova sulla 60th Street a Brooklyn.

La 60th Street è una linea di confine. A nord si estende Borough Park, dove risiede una popolosa comunità di ebrei hassidici. A sud si trova Bensonhurst, forse l'ultima vera enclave tradizionale italiana di una certa dimensione qui in città. Comunità visibile, quella dei nostri connazionali, almeno fino a quando gli ultimi negozi italiani non lasceranno spazio alla più dinamica Chinatown del quartiere, lungo la caotica 86th Street.

Risalgo la 60th verso ovest, a pochi isolati dall'ufficio immigrazione, per fermarmi davanti ad un supermercato italiano che da sempre è nella nostra lista dei posti dove andare assolutamente: D. Coluccio & Sons. Questo non è un supermercato qualunque, perché loro sono grossi importatori e distributori di prodotti alimentari italiani. Il posto, con le sue piccole corsie, è di per se anonimo. Ma sembra uscito da una qualunque città di provincia del nostro sud. I vecchi chiedono d'assaggiare le olive e uno dei salumieri spiega come sono state preparate al forno. Tutto in rigoroso italiano con marcate inflessioni meridionali. Alle pareti vicino alle casse, insieme alle fotografie dei proprietari, fanno bella mostra alcune immagini con gli immancabili eroi del passato più recente: dal vecchio sindaco Rudy Giuliani agli attori dei Soprano. In queste gallerie dei santuari italo-americani non ci trovi più figure storiche come Fiorello La Guardia, sindaco ben più importante per la città. Quello lo puoi trovare a West Broadway, nel Village, con la sua bella statua a due passi dalla New York University. Queste gallerie fotografiche sembrano più bacheche di spicciolo orgoglio politico repubblicano. Per questa ragione, un democratico populista come Bill De Blasio mai e poi mai entrerà nel Pantheon degli italiani di quaggiù, che sono ancora più conservatori di quanto non lo siamo noi in Italia. Chissà, magari un giorno in qualche enoteca della Park Slope di tendenza gli immigrati italiani con la laurea come noi lo faranno vedere ai propri figli, ormai in età da università pure loro. "Ehi, 'Piccoletto', ti ricordi quando mamma mi telefonava e mi diceva che aveva incontrato De Blasio sulla Sesta vicino al supermercato?". Tutto vero, già successo almeno due volte. E poi ti chiedi perché questo nuovo sindaco abbia la fama di arrivare tardi agli appuntamenti ufficiali: nonostante la residenza ufficiale alla Gracie Mansion di Manhattan, ancora frequenta regolarmente il suo vecchio quartiere di Brooklyn.

Pacco di scialatielli, pacco di savoiardi, trancio di mortadella e pezzo di caciocavallo. Sacchetto leggero ma scontrino pesante. A dire il vero, per le medie newyorchesi, qui da Coluccio i prezzi sono davvero bassi, anche quelli dei formaggi. Ma ho comprato un pezzo di caciocavallo che ci durerà un mese e pesa quanto un piccolo lingotto d'oro, avendone per questo un valore che si discosta di poco. Domattina voglio iniziare ad attaccarlo a colpi di pane caldo e olio, come nelle mattine d'estate della mia infanzia.

Alla fine ho deciso che devo andare lo stesso da Joseph a tagliarmi i capelli, anche se ho già fatto la mia foto segnaletica. Pur avendo cambiato quartiere da sette mesi, sono rimasto fedele al mio barbiere palestinese di Bay Ridge. Sarà almeno un miglio e mezzo in linea d'aria da Coluccio. Ma il vero problema è che non ho contanti. Così, guarda la rogna, mi tocca addentrarmi nella Chinatown di Sunset Park. Si, ho nostalgia di quel posto e lo amo dello stesso amore che provavo a Torino per Porta Palazzo.

Non so in quanti, da queste parti, abbiano investito sui diversi mercati azionari cinesi e se quindi in questi giorni siano presi dallo stesso panico dei loro compaesani, che in Cina stanno vendendo a qualunque costo. Ed escludo ci sia qualche collegamento con la scena che vedo in banca. Ma alla filiale Chase sulla 8th Avenue ci sono tre bancomat, di cui due solo funzionanti, e almeno dieci persone in coda. Un'impiegata parla in cinese e prova ad aiutare chi è in difficoltà. Sono quasi certo che io e un altro signore, in coda lì con me, siamo gli unici due non cinesi che si siano visti in zona da ore se non giorni.

Con il portafoglio finalmente gonfio di dollari fruscianti, scendo verso sud in direzione Bay Ridge. Questa di Sunset, come già ho raccontato altre volte, è una Chinatown piccola ma assai popolosa, più della sua sorella di Manhattan che ha pure la fortuna di chiamarsi ufficialmente "Chinatown". Quella è molto più vasta, soprattutto, nella sua area commerciale, e spesso non lo sanno nemmeno i newyorchesi da generazioni, abituati a muoversi sempre e solo nei soliti spazi sicuri. Basta invece lasciarsi alle spalle Canal Street e andare verso East Broadway per trovare il quartiere cinese vero, quello che si estende da sotto il ponte di Manhattan, i cui treni fanno da sottofondo infernale, fino a mangiarsi pezzi della Lower East Side. La cosiddetta Chinatown di Brooklyn, almeno nel sua arteria commerciale, non occupa invece più di venti isolati. Ma sui marciapiedi della 8th Avenue si va sempre a passo di lumaca. Davanti alle pescherie, lungo il bordo della strada, sembra che l'acqua ristagni per giorni, aggiungendo intensità al già caratteristico profumo della zona (piace l'eufemismo?). Granchi e trote si muovono ancora, mentre le anatre laccate pendono nelle vetrine di ristoranti e tavole calde. Ci si muove lentamente e questo aiuta a respirare più a lungo i gas di scarico dei camion e anche quelli degli autobus che fanno la spola lungo la tratta della megalopoli Boston-NYC-Baltimore-Washington. Con un po' di rara fortuna, davanti all'ingresso di qualche palazzina, è possibile anche respirare miasmi di urina umana. Ciabattini, orologiai e venditori di spiedini si dividono quel che resta dello spazio calpestabile. Frutta e verdura sono ovunque, così come quelli che nemmeno alzano la testa e ti distribuiscono come automi volantini scritti in cinese fitto. Insomma: la mezz'ora meglio spesa per fare a malapena mezzo miglio.

Arrivo finalmente nella mia vecchia Bay Ridge, da Joseph. È seduto e sta leggendo il Corano con un suo amico afro-americano. "Salam aleikum, Denis!". Mi spiace interromperli e ricambio il saluto. L'amico di Joseph mi dice che il mio barbiere sa molte cose del Corano. Rispondo che ci credo, al fatto che Joseph conosca la sua religione, e che io, invece, non sono un uomo di fede. L'amico ci lascia, non prima d'aver dimenticato a terra le chiavi del suo furgone, così può tornare a salutarci di nuovo. Joseph accende il condizionatore, afferra il telecomando della televisione e cambia canale, come sempre fa a seconda dei suoi clienti, che in maggior parte sono latino-americani. Tempo di Wimbledon, Serena Williams ha appena chiuso la pratica Sharapova. Mentre passa senza pietà con il rasoio sui miei capelli, ci confrontiamo sui diversi modi di dire pizzetto, in inglese, spagnolo e italiano. Joseph non vuole parlare in arabo ma al momento di pagare gli strappo la promessa che in futuro mi insegnerà almeno qualche parola. Potrebbe tranquillamente fare il marinaio, il mio barbiere.

Inizio ad avere fame. La mortadella se ne sta lì sottovuoto e non mi sembra il caso di mordere il caciocavallo per strada, solo perché non ho pane e acqua. Così decido di abbandonare 4th Avenue e risalire verso nord sulla 5th Avenue, di nuovo a Sunset Park, ma questa volta nella zona latinoamericana. Devo cercare un posto dove mangiare, possibilmente evitando la pizza. Arriva anche il Sole, che mai dovrebbe mancare su questa ruspante cartolina sudamericana e non solo perché è il nome del quartiere a rivendicarlo. Io in Sudamerica non ci sono ancora mai stato. Ma non ho dubbi: questa strada ti porta chilometri e chilometri lontano da New York, tra ristoranti messicani, caffè colombiani e negozi con le magliette dei calciatori di tutto il continente americano. Quest'anno la comunità dei Portoricani di Brooklyn ha anche avuto un privilegio unico qui a Sunset Park. In una domenica pomeriggio di metà giugno ha potuto ospitare, proprio lungo la locale 5th Avenue, la sua Puerto Rican Day Parade dopo che al mattino si era già svolta quella tradizionale per tutta la città nella più nota e noiosa 5th Avenue di Manhattan. Brooklyn fa tendenza in ogni dove, poche storie, e lo fa anche tra le sue enclave etniche. Mi sembra il minimo fermarmi allora in una tavola calda dove i Portoricani sono di casa, la Isla Cuchifritos. Mezz'ora. Giusto il tempo di appoggiare il mio sacchetto da qualche parte, sedermi al banco e ordinare delle "morcillas", salsicce di sangue di maiale, con tanto di riso bianco e fagioli. Tanto per essere sicuro di crollare dal sonno nel pomeriggio. Chiedo anche una limonata, grande. Mi arriva un barattolo di plastica alto e largo, di quelli che quaggiù vengono usati nei supermercati per vendere il brodo di pollo. Altro che le due dita di limone e ghiaccio che ti rifilano da Shake Shack. Con mancia generosa, ben oltre il canonico 20% newyorchese, arrivo a dieci dollari. Salute.

Ho lasciato l'ufficio immigrazione ormai da quasi tre ore e sono diretto verso casa. Com'era quella storia del caciocavallo?

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